Il mio notebook ha un’autonomia di due ore che una volta che lo accendi volano via in uno schiocco. Per ricaricare le batterie posso sedermi in un bar e chiedere un favore al titolare, o andare in una biblioteca, o alle Poste. Lì trovo sempre una presa della corrente a cui attaccarmi, prendo un ticket, mi siedo, fingo di aspettare il mio turno e intanto ricarico le batterie, senza chiedere favori, senza spendere un euro per un cappuccino, senza che nessuno mi rompa le scatole. Ma la domenica le Poste sono chiuse. Sono a Roma, Stazione Termini, ho il pc scarico, devo assolutamente leggere la posta, così mi infilo nel primo McDonald’s che trovo. La solita bolgia, la solita puzza di fritto, il solito ciurmaio di adolescenti cinesi, di chiassose famiglie peruviane, di neri che si divertono un mondo a curiosare nei loro pacchettini. Salgo al piano superiore: c’è una sola presa di corrente ma qualcuno è stato più veloce di me. E’ un italiano con un giubbottino grigio lontra, la pelle del viso stanca, gli occhi arrossati. Si gratta forsennatamente il polso sinistro. E’ uno del popolo dei cartoni, penso fra me, un senza fissa dimora; gli leggo negli occhi tanto di quel sonno arretrato che se potesse stendersi sul pavimento dormirebbe fino a Natale. Occupa un tavolino senza consumare. Ogni tanto una cameriera rumena gli piomba alle spalle e gli ringhia un ultimatum - Solo altri tre minuti bello, poi alzi tuo culo e lasci il posto agli altri - lui le sorride mite, annuisce, ma sa benissimo che fintanto che il suo cellulare non sarà carico il culo da lì non lo leverà mai.
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