Quella di The Niro, al secolo Davide Combusti, è una storia tipica della direzione che sta prendendo il mercato discografico ultimamente. Parabola simbolo di questi tempi moderni. Venuto alla ribalta, oltre che per il talento, grazie al passaparola di blog musicali e, soprattutto, sfruttando quell’innovativo e controverso strumento di diffusione della musica chiamato Myspace. Un interesse che lo ha circondato e che si è fatto sempre più ampio, propagato direttamente dal basso. Senza le imposizioni di un mercato discografico spietato, gli attuali mezzi nei quali si muovono gli amanti della (buona) musica sono un valido aiuto per non ritrovarsi più impotenti e dipendenti dalla logica del consuma e crepa. La vecchia e logora storia delle grandi case discografiche che guidano gusti e mode a discapito, praticamente sempre, della qualità. In un momento di evidente crisi ci si stupisce nel vedere un nome poco altisonante (seppure con un nome d’arte ironico e geniale), quello di un giovane cantautore e compositore rock romano, esordire direttamente nel catalogo di una major. Debutto vero e proprio che segue di poco uno splendido EP di quattro canzoni, An Ordinary Man, che aveva fatto già presagire quello che ci saremmo dovuti aspettare.
The Niro si è guadagnato il rispetto e la fiducia della Universal grazie alla sua già matura esperienza mondiale, con grandi artisti affermati che l’hanno voluto con lui a condividere il palco. Vi bastino alcuni nomi su tutti: Lou Barlow, Okkervil River, Badly Drawn Boy, Sondre Lerche e Deep Purple. Esperienza che è riuscito a costruirsi grazie alla sua perseveranza e costanza.
Anche se poi alla fine certi discorsi pseudo-sociologici possono essere molto opinabili e lasciare il tempo che trovano. Non può quindi bastare questa doverosa premessa per capire appieno il fenomeno The Niro.
Quello che invece ci appare chiaro e certo è il suo talento. È qui che veramente va cercata la chiave del suo successo, è così che The Niro è entrato di prepotenza nelle nostre colonne sonore.
Nei suoi testi troverete i dubbi e le ansie di ogni trentenne che si rispetti. E nella sua calda e potente voce, che canta in inglese, l’eco di una sensibilità passionale ed intensa. Quella di un polistrumentista brillante (praticamente tutti gli strumenti che sentite nel disco sono stati registrati direttamente dal giovane artista) che dal vivo si fa accompagnare da musicisti bravissimi che lo seguono da una vita.
Nelle sue composizioni si trovano gusto (sentite il delicato innesto di tromba in About Love And Indifference, affidata a Sergio Vitale) e sobrietà, per una musica senza fronzoli, semplice e diretta, come si può apprezzare anche ad un suo concerto: attacca la spina, un gesto, uno sguardo fugace ai compagni di viaggio e via, si parte. Trame strumentali che sono già un marchio inconfondibile della sua proposta musicale, composte da complessi arpeggi e colorate da improvvise esplosioni in cui il volume si alza, i ritmi si fanno più incalzanti ed è proprio impossibile restare fermi. Dita che si muovono veloci e sicure su quella chitarra, alternando canzoni nervose (Liar e So Different) ed evocative (l’ossessiva Mistake) o dal respiro più folk (l’acustica Josée) ed intimista (Hollywood e la conclusiva I Wonder). Non mancano poi momenti squisitamente pop che mostrano gran classe, come nella beatlesiana An Ordinary Man. Malinconia che cola da ogni nota.
Quante volte abbiamo letto di paragoni alti e spesso imbarazzanti per descrivere l’impatto di un artista, che sovente si sono rivelati irriverenti parole al vento? Se con altri era inutile scomodare tanta gloria musicale, fidatevi, non lo è in questo caso. Nick Drake, Elliott Smith e Jeff Buckley si trovano tra i suoi dichiarati ascolti ed influenze, ed emergono qua e là, spesso con riferimenti più o meno espliciti. E lui si muove a suo agio, con una naturalezza impressionante, nel vuoto lasciato da musicisti divenuti idoli, riuscendo ad evitare tutto sommato arguzie troppo facilone che strizzano l’occhio ai suoi (e nostri) eroi, anche se in alcuni casi possono sembrare più di un ricordo. Ma è un attimo, un riverbero spazzato via da canzoni stupende e piene di pathos. Non c’è bisogno quindi di accontentarsi dell’ennesimo epigono. La sua cifra stilistica si muove oltre, caratterizzata com’è da un’ispirazione sincera. E se non tutto convince, non è di certo la mancanza di personalità, quanto piuttosto certi passaggi che lasciano poco spazio alla varietà. Poca cosa di fronte alla portata di un’opera piena di belle canzoni, con pochissimi cali di tensione e tanta evidente genuinità. Tredici perle una dietro l’altra, che regalano emozioni che ci riempiono e scaldano il cuore. Caratteristiche sempre più difficili da trovare. Non come quei fenomeni (da baraccone) messi su per vendere vagonate di dischi, piacere a, più o meno, tutti e costruiti per durare poco, il tempo di una sola stagione. Mode che si creano dal nulla e che altrettanto velocemente si dissolvono, sostituite dalla next big thing che sicuramente staranno già preparando.
Ma qui, potete scommetterci, c’è qualcosa che rimarrà a lungo.
Piegiacomo Squilloni